Mi chiamo Sonia Fusco e sono una mamma speciale di tre figli speciali di cui due qui con me, Mariadolores di 21 e Salvatore Paolo di 12 anni e poi c’è, Fernanda Neve che avrà 17 anni per sempre ed è il mio dono immenso nell’eternità della vita.
Era la mattina del 21 ottobre 2021 quando dopo una tranquilla e piacevole colazione tra mamma e figlia, Fernanda saliva a bordo del suo motorino per raggiungere il liceo scientifico sito a Sorrento ma quella mattina non è mai arrivata in classe dai suoi compagni che l’attendevano.
La mia Fernanda stava partendo per il suo ultimo viaggio terreno e io non lo sapevo, l’ho ritrovata poi, senza vita, dopo un’ora circa adagiata come un angelo sull’asfalto stradale nero-morte, lo stesso colore che mi è entrato dentro e mi ha lacerato il cuore trasportandomi nelle tenebre. Un dolore inumano che mi ha condotto in valli desolate, deserti aridi, oceani tempestosi e terre sconosciute. In quei momenti ho raggiunto più volte l’orlo del baratro, ero ad un passo dal precipizio e sul punto di caderci rovinosamente dentro ma, all’improvviso dentro di me ho sentito la forza della vita nascere come quando l’ho partorita.
No, non era finita! Fernanda non mi aveva lasciata; quel cordone non era stato reciso dalla morte.
Mia figlia non era quel corpo, quello era solo il suo abito di scena, il magnifico vestito donatele per uno scopo, un fine che solo dopo un po’ di tempo avrei in parte capito e che sto cercando tutt’ora di comprendere.
Nel frattempo, su quella strada ancora una volta ci trovavamo difronte ad un corpo disteso nell’immobilità della morte, questa volta era quello di mia figlia, vittima innocente di violenza stradale. Noi abitiamo in Costiera Amalfitana e precisamente a Positano. Da due anni era presente lungo la strada statale 163 un cantiere per la messa in sicurezza del costone roccioso. Regolato in entrambi i sensi di marcia dai semafori e quella mattina, come succedeva spesso, l’ennesimo autista in ritardo e/o di fretta era arrivato al semaforo rosso e non si era fermato anzi, aveva premuto il piede sull’acceleratore per arrivare prima ma a metà cantiere ha dovuto fermare la sua corsa e soprattutto ha fermato definitivamente la vita di mia figlia che era partita con il verde. Il veicolo guidato da Domenico ( è il nome dell’autista) si è trasformato in un’arma e la velocità nel proiettile che ha ferito mortalmente Fernanda uccidendola sul colpo. E’ lì che il tempo si è fermato per tutti tracciando una linea netta tra quella luce del prima e quell’ombra del buio pesto del dopo.
E’ mentre abbracciavo stretto a me il suo corpo consapevole che quelle fossero le le ultime ore che mi venivano concesse in sua compagnia, che uno spiraglio di luce si è appoggiato sulle mie labbra e mi ha baciata insegnandomi nuovamente a respirare. Mi ha ossigenato il sangue come in una respirazione bocca a bocca per permettermi di scorgere la grazia e la misericordia, l’amore di essere figli amati, preziosi e mai abbandonati. Mi ricordo di aver recitato il Padre Nostro e aver scandito con fede: …sia fatta la tua volontà; dammi il pane quotidiano che mi servirà per curare le mie ferite, concedimi la forza e il coraggio. Tienimi nel palmo della tua mano Abbà e sorreggimi nelle cadute. Nel lungo viaggio dalle tenebre alla luce ho scoperto di non essere sola, di non affogare in quella valle di lacrime perché Lui nuotava accanto a me senza far rumore, in quel silenzio che dice più di mille parole e mi stava insegnando che non c’è nessuna separazione ma solo amore eterno, pienezza e presenza assoluta. Fin da subito non c’è stato spazio per l’odio, il rancore, la rabbia per ciò che era accaduto perché il dolore e l’amore occupavano tutto il vuoto dell’assenza. Mi ripetevo di essere grata alla vita per ciò che mi era stato donato piuttosto che per ciò che mi era stato tolto.
Una decina di giorni prima di quella data , mia figlia scrisse un tema a scuola sull’Amore che come del resto la sua breve ma intensa esistenza, mi ha insegnato cose importanti e nobili, è stato la chiave e il raggio di luce che ha rischiarato i miei passi e mi ha indicato il cammino.
In meno di due colonne mi ha lasciato un testamento nel quale mi diceva che “… viviamo nella consapevolezza della morte e che cresciamo sapendo che un giorno tutto svanirà e che non c’è certezza sul domani.
Continuava scrivendo che bruciamo attimo dopo attimo, la nostra esistenza. C’è chi vive perché non ha la forza di fare altrimenti, chi vive per portare a termine uno scopo, un progetto. C’è chi vive per amore, non per se stesso non per un altro ma per la vita che lo circonda. […]
-“Che cos’è l’amore?”-. Si chiedeva la mia Fernanda e si rispondeva così: -“ L’amore è il contrario di tutto, si oppone alla materia e vive da solo, altro non serve. Amare non necessita scopo. Amare non necessita ambizioni. Se ami la vita, quella vera, non serve circondarsi di cose mondane. Amare non necessita ego, amare è tutt’uno con la vita. L’amore è ciò che ti impedisce di vedere tutto scuro, pieno di ombre. Per amare non serve uno scopo ma per vivere bisogna amare.”
A soli 17 anni mi ha insegnato il PER – Dono come atto gratuito d’amore. La sofferenza che vivevo e che vivo, quella della mia famiglia, degli amici e della comunità intera è stata e continua ad essere immensa, a tratti insopportabile ma lei, non mi ha mai permesso e non mi permette di provare odio, di lasciare spazio al rancore, non mi permette di sprofondare nell’angoscia e di cristallizzarmi perché perdere chi dava senso alla propria vita può significare perdersi nel nulla.
Fernanda con le sue parole mi ha imposto di trasformare il mio dolore in amore incondizionato…questo era il compito, questo era il suo disegno per me.
La parola AMORE me l’ha tatuata sulla pella e nel cuore.
Fernanda che ha finito la sua vita in strada è diventata la strada stessa da percorre; ha fatto da collante con la mia fede e mi ha fatto toccare la tenerezza di Dio quella di un Padre che nella morte ha fatto fiorire la vita e che non è indifferente al mio dolore. Mi ha fatto comprendere che non era necessario offrire al Signore le mie sofferenze perché è nella sofferenza che Lui si è offerto a me comunicandomi la Sua forza, il suo perdono.
Non è stato difficili capire che : -“Il Padre non manda pietre che schiacciano ma pane che alimenta la vita.”-
La pietra che mi è caduta addosso è diventata pane che mi alimenta e non può togliermi per nessuna ragione al mondo la vita ma solo darmene conferma in pienezza.
Le settimane successive le ho trascorse a capire come potevo utilizzare quel dolore vivo nel cuore che non mi poteva essere risparmiato e l’opportunità è arrivata da una mamma amica di nome Erminia che solo due anni prima si era ritrovata senza il suo Pietro di 15 anni vittima di violenza stradale. Lei mi ha proposto di partecipare ad un incontro con un’associazione che si occupava di incidentalità e dei familiari delle vittime.
E’ stata la manna caduta dal cielo che aspettavo, mi si è aperto un mondo. L l’Associazione familiari e vittime della strada che nell’immediato ci ha accolte con tenerezza, delicatezza e grande rispetto, ci ha proposto tra i numerosi progetti, uno pioniero in Italia che si occupa della giustizia riparativa.
Una giustizia dialogica che offre la possibilità di confronto tra i familiari delle vittime che danno voce a chi non può più farlo e gli autori di reato. Un progetto che ho subito abbracciato e amato.
Dare voce alla storia di mia figlia, ai suoi sogni interrotti, ai suoi progetti, alla sua bellezza con rispetto e grande umiltà mi ha offerto la possibilità di raccontare il mio dolore, di toccarlo e di viverlo, provando sofferenza per quella frattura, quello strappo che mi era stato arrecato. Guardare negli occhi i ragazzi che erano e sono più fortunati di Fernanda o delle altre vittime perché hanno una seconda possibilità, spiegargli che loro possono raccontare ancora la loro vicende gravi o meno gravi e che possono cambiare le cose acquisendo consapevolezza è importante nel faticoso lavoro del lutto. E’ qualcosa che fa bene a loro ma soprattutto a noi. Tutti possiamo commettere degli errori ma nel momento in cui ci viene offerta dalla vita una seconda possibilità bisogna sfruttarla e diventare testimoni per modificare quell’atteggiamento di indifferenza che è alla base della quotidianità ed è ormai la vera e propria emergenza sociale.
La giustizia riparativa è stata quel balsamo che sta permettendo alla mia ferita di non infettarsi, le consente di curarsi, ossigenarsi e piano piano ricucirsi. Si sa che da ferite così profonde la guarigione è lenta; si devono riformare i vasi, rigenerare le cellule, chiudere i tessuti, ricreare la pelle e alla fine comunque rimarrà la cicatrice. Il dolore ho imparato in questi anni che va accolto e vissuto però, il processo di guarigione personale viene accelerato se lo si condivide con gli altri familiari delle vittime e gli autori del reato .Anche questo succede grazie al cammino della giustizia comunitaria. Incrociare i loro occhi con i nostri, confrontare le loro e le nostre emozioni non ci permette di nascondere quello strappo subito e arrecato ma è proprio nel panorama di queste tragedie che abbiamo capito che non esistono vincitori e vinti ma solo umani che nella loro umanità restano perdenti.
Quando ho incontrato il ragazzo che ha investito mia figlia, mi sono travata davanti uno sguardo devastato dal dolore, un corpo e un’anima che si portavano il peso della croce e quello della consapevolezza di aver posto fine ad una vita. Ho detto a Domenico di sapere che quella mattina non era uscito di casa per uccidere ma che ha commesso il più grave e grande errore della sua vita. Lui questo lo sapeva e lo sa e ha aggiunto che se avesse avuto la possibilità di tornare indietro si sarebbe fermato a quel semaforo aspettando il verde anche tutta la vita pur di non uccidere e che avrebbe voluto mille e mille volte ancora sostituirsi a Fernanda. Mi ha confidato che non appena chiude gli occhi vede quel corpo inanime e tutto si fa ancora più buio in lui. Sapere di aver ucciso è una responsabilità enorme, è una tragedia nella tragedia, si diventa vittima della vittima.
Con Domenico ci siamo abbracciati e abbiamo pianto assieme. Domenico sa anche che solo lui può perdonarsi in quanto questa tragedia è stato un errore frutto della sua cultura del non rispetto che è fin troppo radicata e che non permette di onorare la vita come dono e diritto inviolabile. Siamo tutti responsabili:-“società, comunità, scuola, famiglia e singolo individuo -“ . Il fallimento è di tutta la collettività!
Ecco perché per me diventa importante il progetto di giustizia comunitaria che pone a confronto l’accusato con i genitori e/o familiari e ha come scopo quello di aumentare la consapevolezza, di riparare l’errore per modificare il corso degli eventi e sottolinea contemporaneamente l’importanza della prevenzione, del dover arrivare prima perché dopo è tardi. Inoltre una cosa preziosa che abbiamo appresso è il non essere giudicati e il non giudicare perché è più importante essere e sentirsi accolti per insegnare e imparare reciprocamente l’uno dall’altro.
Considero quello che noi facciamo in questo contesto come un atto coraggioso “ di piantare un albero sapendo che forse non godremo nulla di ciò che abbiamo piantato, neanche il profumo. Un giorno però, tra qualche decennio, qualcuno attraversando quella strada godrà finalmente del fresco di quell’albero.”
Un’altra opportunità offerta a noi familiari dalla “riparazione” è la possibilità di rendere eterno il ricordo dei nostri cari che attraverso la memoria e con le nostre storie riusciamo a essere strumento di sensibilizzazione ed educazione alla prevenzione.
Un percorso difficile proprio come il lavoro del lutto , pregno di sofferenza dove il dolore deve passare alla riconciliazione, umanizzandola.
Sentimenti come la vendetta, l’odio e il rancore devono essere sostituiti con la misericordia, l’accoglienza e l’amore. Ho sempre saputo che provare rabbia e risentimento avrebbe significato consumarsi dentro, non vivere, precludersi ogni possibilità di risalire verso la luce per amare. Mia figlia Fernanda non vuole questo e non l’ha mai voluto per noi, anzi me lo ha proprio detto esplicitamente nella sua ultima estate di vita quando in una questione familiare non ero capace di chiarire il mio stato d’animo. Mi disse che il perdono è sempre la strada migliore, la sola che ci permettere di mantenere un benessere mentale e di provare ancora sentimenti di grande bellezza. Non si per-dona per il bene degli altri ma per darsi la possibilità di vivere e non concentrarsi sul male. Quando si fa del bene i primi a goderne siamo noi. La vita moltiplica sempre ciò che diamo e quello che ritorna indietro è elevato all’ennesima potenza. Il dolore è una realtà mentre il risentimento misto alla tristezza sono una scelta e io, non le ho scelte .
Alla fine dei conti, il dolore resterà sempre, il vuoto lasciato dalla dipartita di un caro non potrà mai essere colmato ma è chiaro che Fernanda è gioia, amore, gaiezza, grazia e non posso permettere che tutto questo patrimonio venga rinchiuso nelle sbarre della prigione del cuore per lasciare spazio all’astio, all’avversione, all’esecrazione e tanto altro di negativo. Un dono ricevuto non va mai sciupato!
Spesso si fraintende il significato del perdono perché con superficialità si vuol credere che sia un invito a voler dimenticare, sminuire, giustificare o scusare l’accaduto e ancor più a voler abdicare al diritto di ottenere giustizia. Al contrario, il perdono comporta il ricordo dell’accaduto e della sua gravità e chiede di non dimenticarlo.
Mi sono spesso chiesta se una persona può fare del male senza dover essere necessariamente malvagia. La risposta è assolutamente sì! Nessuno può e deve dimenticare “La banalità del male”, il libro scritto dalla bravissima scrittrice Hannah Arendt nel quale mette in evidenza che Eichmann, il gerarca nazista processato per genocidio, non poteva essere considerato un mostro senza morale. Lui fece cose orribili ma senza cattive intenzioni. Eichmann non era intrinsecamente cattivo ma semplicemente superficiale e inetto; un uomo che “va dove tira il vento”.
Allo stesso modo le tragedie accadute ai nostri ragazzi, ai nostri familiari e amici, sono stato frutto di superficialità, scelte sbagliate, impulsività, irresponsabilità ma quasi mai fatalità. Tutto ciò testimonia che il male è diventato banale perché compiuto senza cattiveria.
E’ ormai quotidianità leggere di morti che perdono la vita sull’asfalto e non solo, quasi sempre le cause sono evitabilissime e antropologicamente banali!
Tutto ciò diventando routine non fa più notizia o lo fa solo per un ristretto arco temporale. Ci stiamo trasformando in automi e siamo disposti ad accettare le più di 3000 vittime di violenza stradale e questo perché sono lontane da noi, perché capitano agli altri e non ci si ferma a riflettere che nessuno può chiamarsi escluso. Le tragedie capitano di continuo e nessuno di noi può essere certo di ritornare a casa incolume se non ci fermiamo una buona volta a riflettere seriamente e pensare prima di agire, distinguendo il bene dal male. Quei numeri sono lontani da chi non vive la realtà del dolore causato da sbagli troppo spesso irreparabili ma evitabili ed è così che si perde la propria umanità, disumanizzandosi.
Il soggetto e l’oggetto che mettono in atto tali eventi sono uomini e sono gli stessi che possono attuare il cambiamento e trasformare il corso degli eventi. La mia generazione ha fallito il compito e ne sono la testimonianza gli eventi tragici della storia corrente ma i giovani, le nuove generazioni sono il futuro e devono essere gli artefici del riscatto, come? Attingendo alla memoria del passato, riconoscendo gli errori e trasformandoli in un dono per attuare il radicale cambiamento. Bisogna offrire la possibilità ai ragazzi di pensare con la propria testa senza dover seguire esempi e mode sbagliate solo perché si è sempre fatto così e così lo facevano i nostri padri e i nostri nonni. Fermiamoci e impariamo anche da loro perché riescono più di noi, in maniera oggettiva, a riconoscere i nostri errori che saranno i loro, nel dopo. Esiste un modo per educare nel silenzio e si chiama esempio.
Un bambino che chiede alla nonna di riporre il cellulare in macchina perché la distrazione può uccidere un pedone o provocar violenza stradale non può essere messo a tacere con grande superficialità zittendolo con un: -“ fatti i fatti tuoi che sei piccolo e non capisci che a me non succede niente!”. Quel nipote, in quell’esatto momento sta educando, sensibilizzando e prevenendo. E’ paradossale come tutti conosciamo le regole ma non ci piace rispettarle fin quando l’impossibile non si trasforma in possibile.
Aristotele diceva che l’uomo è un animale razionale cioè dotato di raziocinio e allora usiamolo, cominciando dalla quotidianità, dal nostro piccolo mondo domestico perché inizieremo a fare del bene prima a noi e poi agli altri.
Le stragi non sono mai finite, i numeri delle vittime restano ancora altissimi anche se molto è stato fatto in un ventennio ma non si ci può accontentare perché ogni anno viene cancellato un paese e il solo modo per fermare questa epidemia è trasformarci dall’essere più pericoloso in quello più consapevole e rispettoso.
Il cambiamento si attua iniziando dalla propria singolarità attraverso i mezzi che la società e la comunità dispongono; non basta ricordare ma è necessario essere testimoni e promuovere il rispetto per la vita arrivando prima perché dopo è tardi. Questo è il compito che con grande orgoglio cerchiamo di portare avanti con la Giustizia Riparativa.
Noi familiari, gli autori di reato, i volontari, gli educatori, tutto il team dell’Associazione familiari e vittime della strada ci impegniamo con grande fiducia e speranza affinché si possa attuare il cambiamento e lo facciamo come testimoni di vita affinché si possa far vincere sempre e comunque la vita.
Noi ci crediamo!
Sonia la mamma di Fernanda
Referente nazionale volontari AFVS